Estratto dall’intervento di Hansjörg Reck al Convegno Nazionale SSCF - SICoF.
Traduzione dal tedesco di Sonja Bader.
di: Prof. Hansjörg Reck *
Prima Parte | Seconda Parte
"Perché la scoperta "del semplice", spesso poco appariscente, e la sua cura sono una premessa per il dono della felicità?
Perché diventiamo liberi di vedere l’essenza anche delle piccole cose." Prof. Hansjörg Reck
A) Liberazione
La “felicità” cercata con violenza, estorta, ha portato raramente alla vera felicità. La violenza paralizza il nostro ascoltare, vedere e riflettere. Alla fine addormenta il nostro pensiero, che diventa calcolatore, dipendente, non libero. Un tale stato può portare alla violenza.
Momenti felici ci vengono regalati, se prima ci siamo liberati da ossessione e vanità. Quando la pura brama e l’ambizione eccessiva si attenuano e ci “svegliamo” per ciò che abbiamo già (ad esempio, quando dopo una malinconia ci liberiamo per un’allegria, un raggio di luce e nuove idee). Perché la scoperta del semplice, spesso poco appariscente, e la sua cura sono una premessa per il dono della felicità? Perché diventiamo liberi di vedere l’essenza anche delle piccole cose.
Nella cantata per solista soprano di Bach, citata all’inizio, intitolata “Ich bin vergnügt mit meinem Glücke” (“Sono felice con la mia fortuna” - BWV 84) si dice grazie anche per i piccoli doni; nella cantata “Nimm, was Dein ist und gehe hin” (“Prendi ciò che è tuo e vai” - BWV 144) la sobrietà è lodata come un “tesoro”, che può dare gioia.
Come dice Heidegger, il nostro Esserci nella cornice della temporalità è “esso stesso la radura” e la sua apertura. “Con la sua reale esistenza incontra anche l’esistente intramondano”. Le sue possibilità di scoprire sembrano infinite. “Che un ente siffatto sia già scoperto col -Ci dell’esistenza, non è a discrezione dell’Esserci. Sono a disposizione della sua libertà, benché sempre nei limiti del suo esser-gettato, solo il ‘che-cosa’ esso possa via via scoprire e aprire, nonché la direzione, l’ampiezza e il modo di questo scoprimento e di questo aprimento”.
Qui si pone la domanda della sua “perspicacia”, ossia la sua capacità di assorbire, la sua sensibilità (Boss, 1971, p.503; Holzhey-Kunz, 2008, p. 281) e la sua risposta alle aspettative, la sua responsabilità (Ver-antwort-ung, in tedesco Antwort significa risposta, ndt.).
Ad esempio, quando si tratta delle spese per la nostra formazione, come nel caso dell’università, siamo troppo poco perspicaci quando si tagliano risorse, ci accontentiamo di troppo poco. Potremmo, dovremmo fare di più per la formazione. Sarebbe opportuno pensare che cosa significa il contributo delle arti per la nostra cultura; dovremmo promuovere i talenti e favorire l’interesse dei ragazzi per le arti. Promuovere non significa indottrinare, ma riconoscere e proteggere le loro sensibilità.
Non possiamo e non dobbiamo precostituire i nostri pensieri e quelli dei nostri figli: come anche la nostra felicità, devono “essere liberi” e alla fine devono poter arrivare come un dono.
B) Idee ed esperienze di felicità nell’arte
“Noi non veniamo dai pensieri. Loro vengono da noi” (Heidegger, 1976, p. 11).
Nell’arte significa che l’artista dipende da un’idea, heideggerianamente “getto”, che fa entrare e al quale corrisponde con il suo progetto. Anche la felicità di un’idea in poesia, musica e nelle arti figurative non deve essere precostituita, ma viene (giunge) come un dono.
Ciò non significa aspettare senza fare nulla. Il lavoro dell’artista, del compositore, come dell’interprete, è un lavoro duro e pericoloso per la cosa in sé che lo chiama e alla quale chiamata deve corrispondere. Questa è la sua chiamata, la professione (in tedesco Beruf; viene dal verbo “berufen” che vuol dire essere chiamati) dell’artista. La sua opera è unica, sempre di nuovo realtà. Non è soltanto in grado di rappresentare l’esistente (Anwesendes), ma di farsi vedere con la sua forza elementare e di rendere sopportabile l’esistente: l’amore, la morte, la vita. E’ una sfida a non decorare semplicemente la nostra realtà calcolatrice, che si ripete continuamente, ma a completarla. E anche, non esiste soltanto per attenuare la fretta del quotidiano. La sua armonia è capace di rendere i suoi lati gentili e scortesi in un suono armonico.
Così un “godimento dell’arte”, a seconda dell’apertura verso questo, ci può riconciliare con il nostro destino e rendere felici, lasciarci indifferenti o disturbarci nella nostra calma.
C) Il “Lied” (ossia il suono) delle cose, il nostro interesse e le esperienze di felicità nella natura.
Il poeta Eichendorff (1955, p. 110) parla di un “Lied”, ossia un suono melodioso che “dorme in tutte le cose” e che “il mondo inizia a cantare” quando “troviamo la parola magica per questo”. L’artista sarà felice di essere riuscito a esprimere il tema che “suona” già dentro lui. E anche noi potremo incontrare questa felicità se una parola ci rivela il “Lied” delle cose.
Anche in Heidegger leggiamo (1972, p. 160 e seg.) che le parole formando un discorso, sviluppano un significato e un senso, “invece l’oggetto delle parole, [...] non viene investito di un significato”.
Così il bambino acquisisce pieno di interesse la propria lingua e altri beni culturali, ascoltando dapprima muto la madre e le cose, per poi corrispondere con fiducia crescente alla loro chiamata: l’infanzia felice di Hermann Hesse consisteva “in nient’altro che nel suono armonico delle poche cose che mi stavano intorno con il mio proprio essere, di uno stato di benessere senza desideri” (1952, p. 19). Una felicità per questo bambino e per noi che ancora oggi siamo toccati da vicino dalla sua poesia e dalla sua prosa (“Glück”, in Gedichte, 1942, p. 181).
Nella storia culturale dell’umanità la natura è stata spesso, ma non soltanto, ciecamente conquistata. Si sono anche sempre ascoltate le sue pretese. Le sue risorse sono certamente servite all’industria come materiali utili. Ma è anche stata percepita nella sua bellezza come dono. La bellezza del fiore e dell’animale serve certamente al corteggiamento e questo ha un senso biologicamente spiegabile, ma non si esaurisce qui. Non risplendono soltanto per accoppiarsi, ma mentre risplendono (per loro stessi) accade anche l’accoppiamento. Ricordo la poesia iniziale di Goethe: sentire la chiamata della natura, che nel cambiamento del tempo uguale, può renderci felici.
D) Abbandono, il pensiero intimo, felicità nell’amore.
Spesso tendiamo, già da quando siamo piccoli, a misurare la nostra felicità in base a che cosa e quanto abbiamo avuto. Però essere felici non ha tanto a che fare con il quanto abbiamo, ma con il regalo per gli altri. Di nuovo sembra che la felicità non si può tanto conquistare, quanto trovare lì dove esiste senza averla cercata. Il sentimento di essere compreso, accettato e perfino amato rende più felice di ogni possibile regalo materiale.
Heidegger, nella Lettera sull’umanismo, dice chiaramente che cosa significa “amare”: “Prendersi a cuore una cosa o una persona nella sua essenza vuol dire amarla, volerle bene. Pensato in modo più originario questo volere bene significa donare l’essenza. Questo volere bene è l’essenza autentica del potere che può non solo fare questa o quella cosa ma anche lasciar ´essere presente´ qualcosa nella sua provenienza, cioè far essere”.
La felicità, come sappiamo, in amore può incantare, ma richiede libertà nell’abbandono. Nella citata Lettera, nella quale è centrale come il pensiero porti a compimento “il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo”, leggiamo inoltre che il pensiero “si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere”.
In quanto l’essere nel suo elemento “si prende a cuore il pensiero” - vuol dire “ama”, come spiegato in precedenza – “e lo porta alla sua essenza”. Questo vale per il pensiero calcolatore e per il pensiero intimo.
Questo “Pensare è pensare a” (an-denken, significa anche “in memoria di”), ma questo “pensare a” è differente da “in memoria di”, differente da un ricordo sfuggente e superficiale del passato.
“Pensare a” è un “prendere in considerazione (be-denken) ciò che ci riguarda”. (Heidegger, 1971, p. 159).
Ma ciò che ci riguarda, ci tocca, ci entusiasma, ci libera o ci impaurisce, addirittura ci fa inorridire e ci opprime, è il loro essere che vuole una risposta.
Ci renderebbe felici?
Sì, può rendere felice sopportare l’essenza di una storia e corrisponderle, vedere come sfida la durezza unita alla dolcezza e rispondere: superare come il medico e il paziente la crisi tra essere malato e guarire!
Riconciliare disarmonia e armonia come l’artista e il politico nel loro operare!
Superare come gli amanti odio e ostacoli, per raggiungere la loro felicità (ad esempio Aida, Romeo e Giulietta).
La poeta russa, Rimma Dalos, fissa questa capacità con brevi parole – messe in musica da György Kurta´g – tre righe con solo sette parole:
Grande urgenza
Amore
Esiste felicità più grande?
Vi ringrazio molto per la vostra attenzione!
Prima parte
* Prof. Hansjörg Reck
Specialista in neuropsichiatria infantile, psicoterapeuta esistenziale, membro del Österreichisches Daseinanalytisches Institut e docente di analisi esistenziale a Costanza, Vienna e Zurigo.
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