La formazione del professionista, che voglia operare nel counseling filosofico, presenta alcune peculiarità che devono essere messe in evidenza. Infatti, pur rientrando nell’ampio campo dei counseling, l’aggettivo “filosofico” viene a rappresentare un elemento distintivo, non solo per quando riguarda la metodologia di lavoro, ma anche per quanto riguarda le caratteristiche del professionista.
Il counselor filosofico deve infatti essere prima di tutto un filosofo, vale a dire aver sviluppato una particolare capacità di osservazione e di valutazione delle cose del mondo, derivante nella maggior parte dei casi dallo studio della filosofia. In altra sede abbiamo definito questa abilità come una propensione alla trascendenza, che viene a configurare una forma di saggezza. I termini filosofia, trascendenza, saggezza possono essere vaghi poiché intesi a volte in modo molto diverso. Vi è comunque un profondo legame tra i tre concetti per cui la filosofia aspira alla trascendenza e in questo realizza la saggezza. Il counselor filosofico sarebbe quindi un cultore della filosofia che attraverso lo studio e la lettura di testi filosofici ha sviluppato nel tempo una visione diversa e più ampia delle cose del mondo. Ciò comporta che egli sia anche filosofo, nel senso di esercitare costantemente una osservazione critica e razionale, liberata dai pregiudizi, dell’esistenza.
Il filosofare si esprime attraverso il pensare, che nell’articolo che propongo in questo numero della nostra rivista definisco come dialogo interiore, un pensare organizzato e creativo che pone in luce gli aspetti fondamentali del nostro esistere. In tale osservare le cose, e nel pensarle, vengono superate le normali modalità percettive quotidiane, trascendendo le usuali dimensioni dell’esistere. Ciò comporta la capacità di valutare le cose nel loro insieme, nella loro totalità, insieme all’abilità sintetica nel vedere l’essenziale. Spesso le persone di fronte a questioni esistenziali perdono di vista ciò che è veramente importante e fondamentale, non riuscendo ad avere una visione d’insieme che gli consenta una risposta o una soluzione.
Quindi il counselor filosofico dovrebbe coltivare e sviluppare, nel proprio percorso di formazione, una capacità di pensare e vedere, comprendere e guidare, insieme ad una consapevolezza di tipo emozionale.
Potremmo quindi porci il problema di come ottenere tali capacità, che coinvolgono l’individuo nel suo insieme, e si basano sulla personalità globale del counselor. Non sono quindi abilità tecniche da acquisire in modo freddo e stereotipato bensì è riuscire a formare un professionista completo, agendo più in profondità, sul suo modo di essere e di vedere il mondo.
Nella nostra cultura attuale vi è la tendenza a riconoscere in pratiche standardizzate e riproducibili gli elementi essenziali e fondamentali delle capacità di un professionista. Ogni approccio terapeutico all’uomo, come per esempio quello psicoterapeutico, deve essere caratterizzato da procedure chiare ed accreditate, che garantiscano efficacia ed affidabilità.
Ciò comporta l’uso di strumenti precostituiti e riproducibili che possano essere appresi e utilizzati in modo sicuro e preciso. Il problema è che quando parliamo di essere umano questo non è mai così definibile e circoscrivibile come vorremmo, ma rimane sempre come qualcosa di incompleto ed irraggiungibile. Per di più quando parliamo di relazioni tra esseri umani entriamo in una complessità ancora più profonda e relativa. Ogni essere umano è unico ed irripetibile ma anche ogni relazione tra esseri umani è unica ed irripetibile. Ci veniamo così a trovare in una situazione in cui l’aspirazione ad avere tecniche e procedure sicure diviene una illusione, con l’unico pregio di dare maggiore sicurezza e tranquillità al professionista. In questa ottica divenire counselor filosofico sarebbe molto semplice, richiedendo unicamente l’apprendimento mnemonico di tecniche, strategie, giochi di ragionamento o argomentazione. Il problema è che nell’uomo, e nelle sue relazioni, non è mai tanto la tecnica ad agire ma è l’uomo stesso nella sua complessità e totalità. Per questo abbiamo sempre sostenuto che il counseling filosofico sia più un’arte che una scienza, e quindi anche il counselor un artista piuttosto che un tecnico.
Questa arte nasce da una maturità interiore e dalla abilità nell’usare il proprio sguardo e pensiero filosofico. I metodi della filosofia sono molti ed alcuni di loro possono essere molto interessanti per il counseling filosofico. Riteniamo però che alla loro base vi sia uno spirito comune, un modo particolare ed unico di pensare, che viene prima di ogni metodo, lo determina e lo condiziona. Questa modalità di pensiero si sviluppa attraverso l’esercizio continuo su di sé, sulle relazioni con gli altri esseri umani e con le cose del mondo, che non richiedono un metodo o un protocollo prestabilito. Questo può rappresentare un punto di riferimento in una fase iniziale di apprendimento, ma diviene alla fine una gabbia, uno schema che irrigidisce ed indebolisce la creatività, indispensabile in un lavoro che vogliamo dire filosofico, e nella relazione che in esso si sviluppa.
La maturità interiore, non solo intellettuale, la saggezza profonda, la capacità di analisi ed osservazione è un processo continuo, potremmo dire interminabile, che nasce dall’umiltà di saper di non sapere, che spinge alla ricerca liberata da schemi, modelli o preconcetti.
Ciò richiede che il counselor abbia sviluppato una profonda conoscenza di sé, del proprio modo di pensare, della propria Visione del Mondo, della propria filosofia. Che abbia cioè una consapevolezza del proprio mondo interno e della esistenza in tutte le sue possibili sfaccettature. Tutto questo può essere ottenuto attraverso una formazione personale che avvenga con l’aiuto di una guida che possa condurre un percorso di ricerca interiore, in grado di consolidare e chiarire ogni aspetto dell’esistenza personale, o più in generale dell’esistenza umana. Nella propria formazione personale il counselor filosofico ha bisogno a sua volta di un maestro, potremmo dire un Sensei o Shihan, termini comuni ad alcune filosofie orientali. La parola Sensei sta a significare “colui che è stato prima”, colui che ha già conosciuto, affrontato e superato. Non possiamo condurre dove non siamo mai stati. Mentre la parola Shihan significa “essere un modello”, ma modello non nel senso di qualcuno da imitare, ma colui a cui ispirarsi per trovare la propria via (Do).
La capacità dello Shihan non è quindi tanto quella di indicare la strada che lui stesso ha già percorso ma di dare spunti e indicazioni, adatti e speciali per quel singolo individuo, per poter favorire il trovare la propria. Così a sua volta l’allievo potrà divenire Shihan.
Si dice che l’allievo trovi il suo Maestro quando è pronto.
Questo è significativo poiché evidenzia il fatto che anche nella scelta di un certo percorso sia necessaria una condizione interna, una predisposizione che richiede l’aver raggiunto un particolare stato di recettività e comprensione, in quel determinato momento.
In questo trovo analogie con il percorso di formazione del Counselor Filosofico che trova nella propria guida un modello a cui riferirsi, una ispirazione per trovare il suo personale modo di essere e di aiutare gli altri. In questo processo non possono esserci tappe prestabilite, tempi predefiniti, strategie programmate. Ciò che avviene è una sorta di alchimia che può anche non verificarsi se gli ingredienti (cioè le caratteristiche di personalità del formatore e dell’allievo) non si combinano tra loro, non entrano in risonanza.
In questa ottica risulta fondamentale tutto il percorso di formazione che comprende lavori in gruppo, laboratori, lezioni interattive e frontali, supervisioni individuali e di gruppo.
In realtà il Sensei può essere riconosciuto nel percorso complessivo, in quella miscela di elementi didattici, correttamente combinati tra loro, che favoriscono il processo di trasformazione e di formazione del professionista.
In questi anni molte volte mi è stato riferito da allievi, giunti al termine del triennio di formazione professionale, il fatto di aver sentito un graduale processo di maturazione che ha portato alla fine ad una cambiamento evidente nel proprio modo di essere, sentire e vedere il mondo. È questo cambiamento quindi in realtà il vero obiettivo del processo formativo, che ha un inizio, un momento di celebrazione e riconoscimento (il diploma) ma non ha, e non deve avere, un termine.
È perciò necessario un continuo esercizio della filosofia e del pensare, che in parte deve avvenire anche attraverso la lettura, lo studio, la ricerca e la scrittura. In questo modo la nostra Rivista viene ad avere uno dei suo significati fondamentali nel rappresentare una ulteriore occasione di formazione, sia per i lettori che per gli autori